Quante formiche ci sono in una foresta? E quanti millepiedi? Quanti acari? Ma soprattutto, che c'importa di saperlo? Prendiamo una foresta pluviale tropicale, di quelle dove le zanzare sembrano elicotteri, gli scarafaggi sono grossi come piatti e le formiche sbranano tutto quello che incontrano. Ad esempio, la foresta centroamericana a Panama. Buttiamoci dentro un centinaio di scienziati, perlopiù entomologi, fornendogli i mezzi per arrivare a tutte le possibili quote, dalle radici alla cima degli alberi. Lasciamoli un paio d'anni a divertirsi gioendo dell'incontro con le zanzare di cui sopra, ragni giganti e scolopendre assassine, utilizzando gru, piattaforme gonfiabili, palloni aerostatici, arrampicandosi sugli alberi o strisciando sul suolo. Lasciamoli qualche altro anno a contare le specie che hanno raccolto gridandosi da un lato all'altro del laboratorio:
"Agrilus basilaris" "celo" "
Agrilus cunfusus" (sic!) "celo, credo" "
Agrilus incedulus" "manca!" "non ci credo".
Lasciamogli anche usare tecniche con nomi che sembrano una via di mezzo tra le fantasie del marchese de Sade e le armi di Goldrake, come "estrattore di "winckler",
"trappola cromotropica", "trappola malese" e "ombrello entomologico". Otteniamo come risultato uno studio rivoluzionario che sta uscendo questi giorni su
Science.
Descritta così sembra una scena tratta da un film dei Monty Pyton, con bizzarri gentiluomini muniti di cappello di paglia e retino per farfalle, imbragati su alberi tropicali o saltellanti sulla cima degli alberi su piattaforme che sembrano canotti. Infatti, le cose non stanno veramente così. Il team internazionale del
progetto "IBISCA-Panama", guidato da Yves Basset della Smithsonian Tropical Research, nel biennio 2003-2004 ha speso sul campo un totale di quasi 70 anni/uomo nel campionamento della foresta pluviale in condizioni tutt'altro che agevoli per censire il numero di artropodi nella foresta e studiare le loro relazioni con le piante.
Il risultato è che in una foresta di 6.000 ettari c'è un totale di circa 25.000 specie di insetti e altri artropodi, una cifra di gran lunga superiore alle aspettative, ovvero venti specie di artropodi per ogni pianta, 83 per ogni uccello e 312 per ogni mammifero (in termini di specie, non in termini assoluti). Se volessimo parlare in termini assoluti, questo si traduce in svariate centinaia di milioni di individui in un'area complessiva delle dimensioni di San Marino. Basti pensare che una sola colonia di tagliatrici di foglie, le Atta, arriva ad avere oltre un milione di esemplari. Ok, interessante, e adesso che sappiamo che in una foresta tropicale ci sono un sacco di bestie con troppe zampe, che ce ne facciamo?
Quantificare il numero delle specie in uno dei punti caldi della biodiversità mondiale è un passo chiave per comprendere e soprattutto per difendere ecosistemi messi continuamente a dura prova dalla deforestazione, dall'inquinamento e dall'arrivo di specie alloctone. Immaginiamo che tra dieci anni gli stessi gentiluomini (e gentildonne) dotati di paglietta, retino e trappole sado-maso tornino a saltellare nella stessa foresta e trovino invece che 25.000 specie 15.000. O magari un declino nelle specie di alcuni gruppi più vulnerabili, tipo i lepidotteri, e un aumento degli scarafaggi. Queste sono informazioni preziose che ci permettono di monitorare la salute dell'intera foresta non solo a livello degli insetti, ma anche a quello della vegetazione e dei vertebrati come uccelli e mammiferi.
Ci permetterebbe inoltre, se ci fossero altri studi simili, di capire cosa rende certe zone più ricche in biodiversità, e ci consente di capire come sopravvivono e come si sono evolute molte specie.
In una parola, uno studio del genere pone una la base conoscitiva fondamentale che serve per capire la salute non solo di un ecosistema, ma dell'intera biosfera. Un altro dato interessante è che gli insetti non hanno dovuto contarli uno per uno. È emerso infatti che è possibile estrapolare dati sulla biodiversità di una foresta da campionamenti relativamente ridotti: un ettaro, secondo il team internazionale, può essere sufficiente per avere un'idea della biodiversità di una regione. Questo però a condizione che i campionamenti vengano fatti a macchia di leopardo (pardon, di giaguaro) su aree distanziate che tengano conto della diversa composizione vegetale.
I 102 scienziati del team appartenevano a ben 21 paesi differenti, ma tra questi c'era un solo italiano, l'entomologo Gianfranco Curletti del Museo Civico di Storia Naturale di Carmagnola. Curletti è un tassonomo di fama internazionale e non è quindi sorprendente che facesse parte del team, per il cui conto era responsabile sia di posizionare le
sticky traps (una versione aromatizzata ai fiori di bosco della carta moschicida) che di classificare un gruppo di coleotteri di cui ha già scoperto molte specie, i Buprestidi. Dispiace invece che fosse l'unico italiano, ma non è sorprendente poiché, come afferma lui stesso, "in Italia la ricerca naturalistica è ridotta al lumicino, tanto che per partecipare al progetto ho dovuto autofinanziarmi".
IBISCA è stata sinora un'opportunità unica. Ciò non toglie, dice Curletti, che se si troveranno ulteriori finanziamenti la ricerca possa continuare in futuro, magari in altri continenti e con nuove leve. Speriamo allora che le foreste tropicali tornino presto a risuonare del richiamo territoriale dei tassonomi ("celo, celo, manca"), prima che sia troppo ta