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27 febbraio 2013 3 27 /02 /febbraio /2013 19:21

 

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27 febbraio 2013 3 27 /02 /febbraio /2013 13:22


Il naufrago Alexander Selkirk, marinaio scozzese che ispirò nel 1719 Daniel Defoe per il suo Robinson Crusoe, vi fu abbandonato per punizione: imbarcato a 27 anni su una nave corsara, per evitare il carcere in patria, seguitava a dire che l'imbarcazione (troppo malandata) sarebbe affondata. E così fu, ma dopo che Selkirk fu lasciato sull'isola disabitata (dal 1704 al 1709). Da solo, nella realtà senza nemmeno l'indigeno Venerdì che Defoe gli ha inventato come compagno. Non è leggenda quel Robinson e nell'isola troviamo anche la sua grotta, nella baia degli Inglesi. «Eccola», i pescatori la indicano mentre ci portano al porto di Cumberland, dove è il paese e dove ogni tanto uno tsunami si abbatte (l'ultimo nel febbraio 2010: sette morti). A gennaio e febbraio è estate, massimo 22 gradi (10 di inverno). Fresco, ma raggi solari brucianti. L'isola è una striscia di terra a forma di virgola, lunga una ventina di chilometri, 6 chilometri l'ampiezza massima. Vulcanica e posizionata sulla placca di Nazca, dove qualche volta colonne di acqua calda sbuffano dal mare. Durante il tragitto in barca i nostri traghettatori pescano all'amo. Due-tre vetriole, piccoli tonni. Ottimi crudi, marinati per 30 minuti nel limone: è il primo pasto isolano nel Lodge Robinson Crusoe che ci ospita. Ricetta dello «chef» Pia.

Un patrimonio della biosfera
Ancora in mare: un gruppo di curiosi delfini si avvicina, un cormorano si tuffa e riemerge con la preda, pesci volanti sbucano dall'acqua quanto basta per una foto. «D'inverno si vedono anche le balene», dicono i pescatori. Passiamo sotto al monte più alto dell'isola (915 metri). Le montagne, verdi in altura, scendono a precipizio. Le coste brulle e desolate. Al centro dell'isola, un'ampia valle di foresta sempreverde sub-artica. Niente mezze vie: alberi grandiosi e palme nane, felci di inusuale grandezza e colibrì poco più grossi di un calabrone. In mare, tante grotte accessibili solo con la bassa marea. Ecco il porto, le razze (reti) per le aragoste (langoste) delimitate da boe. Il paese. Siamo a 700 chilometri dalle coste cilene meridionali. Nel cuore dell'isola di Robinson. Parco nazionale dal 1935. Patrimonio dell'umanità dal 1977, area dall'Unesco per la salvaguardia mondiale della biosfera. Rigidamente protette flora e fauna, terrestre e marina. Così si sono salvati i «lobi» (lupi), foche selvaggiamente cacciate per il pelo tra il 1788 e il 1809: oltre 5 milioni di esemplari uccisi fino alla decretata estinzione. Poi, nel 1958, ne fu avvistata una coppia in una grotta. Oggi i lupi sono tornati 15 mila.

 

Pirati e tesori
Storie di pirati e di tesori si respirano nell'isola, la più grande delle tre dell'arcipelago Juan Fernández (che le scoprì nel 1574). Eccoci a San Juan Bautista. Una caserma con tre poliziotti, una tenda palestra, il pub, una baracca che affitta attrezzature da sub, l'osteria Defoe, il laboratorio di Brenda dove il corallo nero si trasforma in poveri e magici monili. I pescatori intrecciano i rami elastici del maqui (l'albero si chiama come il frutto) per farne razze da aragoste, che qui sono rosse anche da vive. Nelle profondità marine ve ne sono anche di bianche, sacre e non commestibili così come gli enormi ricci neri. Granchi di vari tipi e dimensioni. Pesci in quantità ormai dimenticate in altri mari. Capre, mucche, cavalli pascolano per i monti. Ai cavalli è vietato entrare nel villaggio. Tranne il 21 maggio e il 18 settembre, giorni di festa nazionale: si beve la «ciccia», a base di bacche di maqui fermentate (5 gradi alcolici), e si assiste al palio. Uno slalom al galoppo con un tronco legato al cavallo. Quattro le contrade.

 

L'affondamento del Dresden
In mare, davanti al porto, c'è il relitto dell'incrociatore tedesco Dresden (Dresda) autoaffondatosi lì il 14 marzo 1915, circondato da navi nemiche inglesi. A Veracruz, in Messico, il Dresda era arrivato nove mesi prima: c'era la rivoluzione di Pancho Villa, deve portare via il presidente deposto Victoriano Huerta, i cittadini tedeschi e i loro beni. Oro, gioielli e soldi. Sbarca in Giamaica l'esiliato Huerta e si appresta a rientrare. Scoppia la prima Guerra mondiale (agosto 1914), la battaglia delle Falkland, il Dresda è braccato nel Pacifico meridionale fino all'autoaffondamento. Il tesoro che trasportava? Mai ritrovato. Ma a San Juan Bautista - un centinaio di casette, quasi tutte in legno, senza fondamenta ma poggiate su palafitte alte mezzo metro - incontriamo Maria Teresa Beeche, la proprietaria della taverna-pensione Daniel Defoe. Lei cerca il tesoro più importante. Il suocero, un medico cileno, le ha lasciato in eredità una pergamena in inglese arcaico trovata in uno scrigno sepolto. Si parla del tesoro del Viceré delle Indie. Ci ha creduto Bernard Keiser, imprenditore americano: nel 1998 ha investito 10 milioni di dollari per trovare il tesoro degli Incas: 800 sacchi d'oro, forzieri di gioielli e pietre preziose, casse d'argento, il prezioso collare della moglie di Atahualpa (tredicesimo e ultimo imperatore Inca) e una Rosa dei Venti in oro massiccio. Lo ha nascosto Juan de Ubilla y Echeverria, corsaro spagnolo al servizio degli Asburgo che aveva saccheggiato il mercantile «Nuestra Senora del Monte Carmelo» mentre trasportava il tesoro da Veracruz verso Siviglia. Keiser non ha trovato nulla.

Le bacche «magiche»
A caccia di tesori non si accorse delle bacche di maqui, l'elisir di lunga vita. Nell'ultimo libro (2013, Sperling & Kupfer) di Barry Sears, presidente dell' Inflammation Research Foundation di Boston, ne è descritto il potere. Capitolo 7: «Per rallentare il processo di invecchiamento è fondamentale aumentare l'attività dell'enzima della vita. A questo riguardo si può considerare eccezionale un particolare gruppo di polifenoli: le delfinidine. Si trovano soprattutto nelle bacche di maqui che crescono spontaneamente sulle isole del remoto arcipelago Juan Fernández. O in Patagonia, nel Sud del Cile». È 40 volte più potente degli altri polifenoli. Il maqui è pianta sacra per gli indigeni del Cile meridionale (i Mapuche, o uomini della terra), mai sconfitti con le armi da nessuno. Leggendaria la loro robustezza: alti in media un metro e 85, le loro orme sulla spiaggia furono scambiate per quelle di giganti dall'italiano Antonio Pigafetta che fece, dal 1519 al 1522, il primo giro della Terra. Mangiavano maqui e carne di nandù, uno struzzo selvatico. Uno sciamano Mapuche ci spiega: «Il nostro popolo vive in Patagonia da 30 mila anni, il maqui c'era prima di noi». È la pianta di Dio.

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26 febbraio 2013 2 26 /02 /febbraio /2013 10:39

 

Scoperti nel vicentino i resti di un plesiosauro, i primi mai trovati in Italia (© Corey Ford/Stocktrek Images/Corbis)
Scoperti nel vicentino i resti di un plesiosauro, i primi mai trovati in Italia.

Anche l'Italia ha il suo plesiosauro: un rettile predatore lungo circa 4 metri con una grande testa, denti conici e un corpo affusolato che lo rendeva agilissimo nell'acqua. I resti di questo vorace abitanti dei mari, vissuto circa 160 milioni di anni fa quando la nostra penisola era ancora coperta dalle acque, sono stati trovati negli anni '80 in una cava di marmo nei pressi di Vicenza da Andrea Cau e Federico Fanti, paleontologi del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna. Negli ultimi 30 anni il fossile, una settantina di ossa in tutto, è stato conservato presso il Museo Paleontologico e della Preistoria Pietro Leonardi di Ferrara, ma solo recentemente ha avuto dagli scienziati l'attenzione che meritava.

Una volta, qui, erano tutti mari. Le analisi hanno permesso di scoprire che i resti appartenevano a un grande rettile pinnato della famiglia deiPliosauridae vissuto all'inizio del Giurassico superiore. Il fossile sarebbe riemerso dalle rocce di un antico fondale marino che si sono fratturate e allontanate tra loro a causa della formazione della catena alpina.
Il Plesiosauro di Vicenza aveva una testa molto grande, lunga circa 1/4 dell'intero animale, e una mascella sottile dotata di numerosi denti aguzzi adatti a cacciare piccole prede. Per i paleontologi e gli studiosi si tratta di un ritrovamento eccezionale, il primo in Italia e uno degli unici in Europa. Cau e Fanti, nel 2011, avevano descritto un altro grande rettile italiano, ilNeptunidraco ammoniticus, il più antico coccodrillo marino noto al mondo, vissuto 6 milioni di anni prima rispetto al pleiosauro.

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25 febbraio 2013 1 25 /02 /febbraio /2013 12:20
astronomia,Stati Uniti,Namibia,Argentina,Messico

Ahnighito, il secondo meteorite più grande. Fotografia di Jonathan Blair, National Geographic

Il meteorite caduto in Russia venerdì ha scatenato il panico tra la popolazione, preoccupata di venire colpita. Ora che il pericolo è passato, in tanti sono a caccia dei preziosi frammenti spaziali. Fortunatamente molti musei offrono la possibilità di osservare queste rocce spaziali in maniera economica e senza rischi!

Ecco dove si trovano i cinque meteoriti più famosi del mondo.

1. Hoba
Dove si trova: esattamente dove è caduto: in Namibia. Nel 1955 è stata dichiarato Monumento nazionale.
Tipo: È il meteorite ferroso più grande che sia mai stato trovato sulla Terra. Hoba pesa 60 tonnellate e misura 2.7 metri di lunghezza, 2.7 metri di larghezza e un metro di spessore.
Origine: Hoba sembra abbia attraversato l’atmosfera terrestre circa 80 mila anni fa ma fu scoperta da un contadino solo nel 1920. Gli scienziati non hanno ancora capito perché, nonostante le sue misure, il meteorite non abbia lasciato un cratere d’impatto. Secondo molti, la combinazione della sua forma e della composizione atmosferica avrebbero rallentato molto la velocità di caduta di Hoba. 

2. El Chaco
Dove 
si trova: dopo un tentativo di spostarlo in Germania, bloccato nel 2012 da cittadini e scienziati argentini, il meteorite, insieme ad altri resti, riposa tranquillo nella provincia argentina di El Chaco.
Tipo: El Chaco è uno dei tanti meteoriti ferrosi appartenenti al gruppo chiamato Campo del Cielo. Pesante circa 37 tonnellate, non solo è il pezzo più importante del gruppo ma anche il secondo meteorite singolo più grande. Il peso totale di tutti i suoi frammenti supera infatti le 60 tonnellate, più di Hoba che detiene così lo scettro di meteorite più grande.
Origine: El Chaco faceva parte di uno sciame meteorico caduto nel nordest dell’Argentina tra i 4 mila e i 5 mila anni fa.

3. Willamette
Dove si trova: al Museo di Storia Naturale di New York.
Tipo: Williamette, che pesa circa 15 tonnellate e mezzo, è il più grande meteorite mai trovato negli Stati Uniti ed il sesto nel mondo.
Origine: Anche se è stato scoperto in Oregon solo nel 1902 da un minatore di nome Ellis Hughes, sembra che questo meteorite butterato si sia schiantato sulla Terra almeno un milione di anni fa in seguito, forse, alla collisione stellare di un pianeta o di una luna dal nucleo ferroso. Viene venerato dalla tribù indiana dei Clackamas Chinook, che abitava nella vallata di Willamette prima della colonizzazione europea.
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4. Ahnighito, o la Tenda
Dove si trova: al Museo di Storia Naturale di New York.
Tipo: Ahnighito pesa 34 tonnellate ed è il meteorite più grande che sia mai stato spostato dall’uomo. 
Origine: Ahnighito è un frammento di un meteorite chiamato Cape York che avrebbe colpito la Terra circa 10 mila anni fa nel nordovest della Groenlandia. Appartenente in origine agli Inuit, il grosso pezzo di ferro fu l’oggetto del desiderio di molte persone. Soltanto nel 1897 fu caricato a bordo della baleniera Hope (vedi la fotogalleria) dall’esploratore americano Robert E. Peary.

5. Bacubirito
Dove si trova: attualmente è conservato al Centro de Ciencias di Culiacan, in Messico.
Tipo: Bacubirito pesa 24 tonnellate - molto meno di Anhinghito - ma con i suoi 4.2 metri di lunghezza è tra i più grandi mai scoperti.
Origine: il meteorite fu scoperto nel 1863 dal geologo Gilbert Ellis Bailey ed è una delle attrazioni turistiche più amate del Messico.
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25 febbraio 2013 1 25 /02 /febbraio /2013 10:13

 

Grillo nei suoi comizi illustra la proposta programmatica che prevede il reddito di cittadinanza. Altre formazioni politiche, soprattutto Rivoluzione Civile, gli fanno eco. Occorre chiarirsi le idee, perché quando si usano le parole con accezioni di significato non univoche, i fraintendimenti sono inevitabili. Grillo, Ingroia e gli altri che ne parlano, usano quell’espressione come sinonimo di “sussidio di disoccupazione”. Per questo affermano che c’è ovunque in Europa tranne che in Italia, Grecia e Spagna.

In realtà il reddito di cittadinanza così come è inteso dai suoi promotori più radicali, come Alain de Benoist, non esiste in alcun Paese del mondo, perché sarebbe una misura rivoluzionaria quante altre mai.

Reddito di cittadinanza significa che a ogni cittadino, dalla culla al letto di morte, viene concesso dallo Stato un assegno di mantenimento equivalente a quello che viene considerato un minimo vitale. Per esempio, nell’Italia di oggi, potrebbero essere 800 euro mensili. Ogni individuo, dalla nascita, ha un diritto alla vita che la comunità gli riconosce dandogli i mezzi per sostentarsi. Ci saranno persone che approfitteranno di questo diritto per non cercare mai un lavoro, accontentandosi di quel poco. L’obiezione è superabile, perché la produttività del lavoro è tale che quella parte della popolazione che comunque lavorerà per avere un migliore tenore di vita, potrà garantire i livelli produttivi adeguati alle esigenze nazionali.

Altre obiezioni al progetto sono serie. Intanto diventerebbe un fortissimo incentivo a fare molti figli, consentendo di vivere bene senza lavorare. Nell’esempio degli 800 euro mensili, una coppia con 5 figli avrebbe un reddito di 5.600 euro mensili. Avremmo una fortissima pressione di immigrati desiderosi di ottenere il diritto di cittadinanza e il relativo reddito garantito.

Si potrebbe ovviare all’inconveniente assegnando il reddito di cittadinanza esclusivamente a partire dalla maggiore età, ma in questo caso potremmo avere la conseguenza opposta: molte coppie non farebbero figli, accontentandosi di vivacchiare con l’assegno statale mensile senza lavorare.

Un’altra obiezione seria è che appare ingiusto elargire a spese dello Stato anche a favore di ricchi e benestanti.

C’è poi il problema della copertura finanziaria. Il reddito di cittadinanza sarebbe troppo oneroso per il bilancio pubblico. Per farvi fronte, i poteri pubblici dovrebbero sgravarsi di tutto il peso dei servizi.

Scuola, comunicazioni, trasporti, sanità, dovrebbero essere interamente privatizzati. Anche il sistema pensionistico scomparirebbe, dal momento che ogni anziano riceverebbe comunque l’assegno mensile di 800 euro. Chi volesse garantirsi una pensione migliore, dovrebbe integrarla tramite un’assicurazione, un affare lucrosissimo per le Agenzie private.

Eppure, nonostante tutte queste obiezioni, la proposta rimane degna di considerazione. Il suo valore consiste da un lato nella garanzia che comunque nessuno rischierebbe la fame o quella disperazione che spinge non pochi al suicidio per motivi economici; dall’altro lato, obbligherebbe ognuno ad assumersi una grande responsabilità personale. Proprio perché i servizi non sarebbero più garantiti, i cittadini responsabili si cercherebbero comunque un lavoro, trattenendo dal reddito di cittadinanza una quota per la scuola dei figli, una per l’assistenza sanitaria, una per integrare la pensione. A questo servirebbe il reddito di cittadinanza: offrire a ognuno la possibilità di programmare la propria vita autonomamente, in relativa sicurezza, quella sicurezza data dalla certezza che nei periodi difficili, periodi di disoccupazione in cui non si può più risparmiare, si può comunque contare sul minimo vitale.

Responsabilizzazione deve diventare la parola d’ordine. Questo vale anche per quei comportamenti da cui i poteri pubblici potrebbero ricavare altre risorse. Chiamiamola pure “tassa sul vizio”. Legalizzare le droghe, tutte le droghe, e tassarle pesantemente. Legalizzare la prostituzione togliendola dalle strade, in pratica ripristinando i postriboli, e tassarla pesantemente. Chi vuole soddisfare i propri vizi lo faccia legalmente, ma qualora assuma comportamenti antisociali, come nel caso di incidenti oppure delitti causati da abuso di alcol o droga, sia punito molto severamente.

A proposito delle punizioni, si trasformino le carceri in centri di produzione. I detenuti paghino il loro debito verso la comunità coi lavori forzati. Non ricevendo un salario ma soltanto il vitto e l’alloggio nel centro di detenzione, darebbero un contributo economico molto significativo alla nazione.

Ecco come ragionando su tutte le implicazioni del reddito di cittadinanza si può giungere a configurare un modello sociale che recupera logiche antiche e nel contempo ci proietta verso scenari nuovi.

Gli economisti patentati, quegli accademici che pontificano da tutti i giornali e da tutte le emittenti, parlerebbero di follia totale a proposito di programmi come quello qui abbozzato, ma nulla è più folle del delirio in cui ci fanno vivere.

 

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24 febbraio 2013 7 24 /02 /febbraio /2013 10:32

È colpa mia:

Si te vene nu dubbio, se po’ tu t’arraggie, non ti senti sicura
E accummencia ‘a paura, si certa ‘e sapè che è stata accussì
E’ colpa mia, è colpa mia, è colpa mia… è colpa mia
E mi metti alla prova pe’ vede’ si te penzo e te voglio cchiù bene
E da ieri sera stai facenno domande po’ sapè si te stanche
Ancora insieme, ancora, ancora insieme… ammore mio
E mo chell’ che è stat’ è sta’
E mo nun me fa cchiù stu terzo grado
‘O tiempo corre annanz a mme
Nun resta tiempo pe’ sapè
Sì è colpa mia
Se ti vengo a bussare, dal cortile a chiamare e quaccuno s’affaccia
Nun risponne e mi caccie, sei sicura che è stato un amore sbagliato
E’ colpa mia, è colpa mia, è colpa mia… è colpa mia
‘E cagnato ‘o vestito ede il gesto ha tradito quella tua frenesia
Di cambiare la via e te stongo aspettanno pe sapè si te stanche
Ancora insieme, ancora, ancora insieme… ammore mio
E mo chell’ che è stat’ è sta’
E mo nun fa vedè ca pienz a nato
‘O tiempo corre annanz a mme
Nun resta tiempo pe’ sapè
Sì è colpa mia
‘O tiempo corre annanz a mme
Nun resta tiempo pe’ sapè
Sì è colpa mia.


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23 febbraio 2013 6 23 /02 /febbraio /2013 11:59

Dalla sua uscita il film "il principe abusivo" di Alessandro Esposito- Siani, a parte la campagna pubblicitaria e il primato del box office, mi ha incuriosito parecchio perché conosco la vis comica di origine cabarettistica del mio omonimo e concittadino ( non siamo parenti) che si rifà alla commedia dell'arte napoletana ed insegue il mito del grande Massimo Troisi . (Ha usato il cognome Siani in omaggio al giornalista vittima della camorra).

 

 Devo dire che il film, interpretato come attore e opera prima di Alessandro, il quale con ironia, qual'è la sua caratteristica, ne ha curato anche la regia, pur seguendo il filone dei cine-panettoni, ha creato un'opera garbata nei toni evitando sguaiate parolacce che caratterizzano i film di Cristian De Sica .

 

Anche se la trama con la quale è stato costruito il l film verte su una storia trita e ritrita della classica favola di Cenerentola da lui raccontata a rovescio, cioé di un ragazzo povero che cerca di conquistare la principessa. La bravura di Siani consiste nell'avere imbastito una storia credibile con attori-personaggi perfettamente adeguati allo svolgimento del tema raccontato. Le numerose gag e situazioni comiche ne fanno un film godibile che giustifica ampiamente il costo del biglietto, regalando un'ora e mezza circa di buonumore agli spettatori che nei momenti attuali che viviamo non sono poca cosa.

 

L'abilità di Siani sta nel  riuscire  a collezionare i drammi della città e della disoccupazione atavica, alla magica inventiva  del popolo napoletano esaltando la sua genialità nel sapere come sbarcare il lunario inventandosi di giorno in giorno l'arte del raggiro e del sopravvivere ad ufo. Egli riesce ad umanizzare il suo personaggio che vive di espedienti, rendendolo quasi "Defilippiano", infatti il suo Antonio sembra appena uscito da un quadro del capolavoro di Eduardo "Natale in casa Cupiello" al quale somiglia persino nell'abbigliamento adottato in scena.

 

Credo che Alessandro Siani abbia intrapreso una strada artistica che lo porterà a diventare un nuovo grande interprete della comicità tradizionale napoletana se continuerà a seguire le tracce dei suoi magnifici predecessori , rispettando i loro tempi, pause e caratterizzazioni. Bisogna comunque riconoscergli che una grande dote la possiede e nel suo film " Il principe abusivo" essa viene fuori: "La Napoletanità"  che lo può portare a diventare veramente il vero Principe della comicità, ma non abusivo!. 

 

La presente recensione è presente anche sul mio blog lalchimista.over-blog.it

 

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22 febbraio 2013 5 22 /02 /febbraio /2013 19:38

 

Secondo un principio stabilito dalla Corte di Cassazione, non è reato avere rapporti sessuali in ascensore, purché tutto avvenga «tra un piano e l’altro e la cabina sia priva di vetrate» (Cass. 10060/2001). Infatti, se da un lato l’ascensore di un edificio può senz’altro definirsi come un luogo pubblico, dall’altro, una volta serrate le porte, ed escluso che altri possano vedere da fuori quello che succede, non lo è più. E quindi si può utilizzare come... alcova di fortuna.

Consulenza pre-sessuale
Ma, in generale, prima di abbandonarsi alla passione è consigliabile consultare un avvocato. Perché non tutti i luoghi sono uguali. Avere rapporti sessuali nella toilette di un aereo, chiusa a chiave, è diverso dal rotolarsi tra i sedili, anche se le file sono vuote. In linea generale, spiega l’art. 527 del Codice Penale, chiunque compie atti osceni in luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico è punito con la reclusione da tre mesi a due anni o con una multa da 30 a 300 euro.

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22 febbraio 2013 5 22 /02 /febbraio /2013 13:03

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Puoi fuggire lontano dalla città e dallo smog, dedicarti a una vita salutista in campagna, smettere di fumare, mangiare solo prodotti dell’agricoltura biologica, ma c’è una discarica di rifiuti tossici da cui non riuscirai ad allontanarti mai: è il tuo corpo.

 

Michael Lerner, leader ambientalista californiano, ha fatto questa triste scoperta la settimana scorsa, a 59 anni.

Nel suo organismo hanno rilevato 101 sostanze chimiche altamente velenose tra cui diossine, arsenico, piombo e mercurio. Le ha accumulate mangiando, respirando, lavandosi, vestendosi come tutti noi, e non può più eliminarle. Lerner non lavora in una fabbrica chimica, non vive in una zona industriale inquinata ma nella verde e ventilata Baia di San Francisco.

 

È uno dei nove militanti ecologisti che si sono sottoposti a un nuovo esperimento: il test clinico più accurato del mondo per scovare tutte le sostanze chimiche di origine industriale che finiscono per depositarsi nel corpo umano. È un esame costoso (più di 5.000 dollari a testa) che nessuna mutua rimborsa. Perciò lo ha sponsorizzato un’agenzia federale, il Center for Disease Control and Prevention, e le nove cavie umane sono state analizzate in una delle migliori cliniche universitarie americane, la Mount Sinai School of Medicine di New York.

 

Dopo decenni passati a studiare la contaminazione dell’atmosfera, dei mari e della terra, gli scienziati dell’ambiente stanno rivolgendo la loro attenzione a una zona di inquinamento fin qui troppo trascurata: noi stessi.

Nuove tecniche di analisi in laboratorio permettono di reperire con precisione tutte le sostanze tossiche e non riciclabili che si depositano dentro di noi, nel nostro sangue, nelle nostre cellule, nel sistema nervoso.

 

Secondo la definizione della U.S. Environmental Protection Agency questo è il nostro “body burden”, letteralmente la zavorra corporea che trasportiamo senza saperlo. Il sito Internet www.ewg.org vi propone un questionario molto semplice, con cui potete misurare le conseguenze delle più banali abitudini quotidiane sul vostro “body burden”: ogni volta che usate shampoo e balsamo, deodoranti spray, lucido da scarpe, ogni volta che mangiate del tonno, mettete il detersivo nella lavatrice o camminate su una moquette sintetica, il vostro “body burden” si appesantisce di micidiali veleni chimici.

 

Nei nove militanti ambientalisti che si sono sottoposti a questi lunghi accertamenti, i risultati sono stati inequivocabili. In media ciascuno di loro “contiene” una novantina di sostanze chimiche di origine industriale, di cui 76 sicuramente cancerogene, e altre in grado di provocare disturbi nervosi, malattie ormonali e cardiovascolari, sterilità o cadute delle difese immunitarie. Gli hanno trovato in corpo perfino prodotti tossici che in America sono vietati per legge dal 1976: probabilmente li hanno assorbiti da bambini, e non potranno mai disfarsene.

 

“Ho smesso di mangiare tonno, pesce spada e merluzzo dice Lerner da quando ho visto nelle rilevazioni scientifiche le quantità di mercurio che contengono questi pesci, vittime dell’inquinamento degli oceani. Ma ormai il mercurio che ho in corpo è già sufficiente per avvelenarmi, probabilmente mi ha già causato danni cerebrali”. Una sua compagna in questo esperimento, Charlotte Brody, è una ambientalista che da vent’anni segue una dieta vegetariana a base di prodotti agro-biologici, eppure i medici del Mount Sinai Hospital hanno catalogato nel suo sangue e nelle sue urine 85 veleni chimici di origine industriale. “È la prova che purtroppo neanche lo stile di vita più sano ti può proteggere”, commenta lei.

 

Alcune sostanze chimiche tossiche finiscono nell’organismo soprattutto durante l’infanzia perché sono usate nella fabbricazione dei giocattoli di plastica. E con l’adolescenza sale l’esposizione alla contaminazione dai prodotti per l’igiene intima e la cosmesi. Perfino le nostre case ci avvelenano lentamente: la vernice dei muri può contenere piombo, le vecchie costruzioni (anni ’50 e ’60) usavano l’amianto come isolante.

 

Nulla si perde, il nostro corpo è condannato a immagazzinare quasi tutto. “I nostri nonni dicevano you are what you eat: siamo ciò che mangiamo commenta la scrittrice di scienze Francesca Lyman ; ora quel proverbio diventa una realtà misurabile in laboratorio: purtroppo siamo tutto ciò che abbiamo mangiato, bevuto, respirato, odorato e toccato durante la nostra vita, anche senza volerlo o senza saperlo”.

 

Ma per Jeannie Rizzo, direttrice del Breast Cancer Fund, la fondazione per la ricerca contro il tumore al seno, queste scoperte non devono indurre alla rassegnazione: “La reazione giusta è avere regole più severe, più controlli sull’industria chimica, sull’agricoltura e sui prodotti alimentari, per fare rispettare i divi

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21 febbraio 2013 4 21 /02 /febbraio /2013 19:14

 

 

 

 

 

Una  ricerca ha rilevato che i delfini tursiopi, qualora vengano separati dai loro cari, richiamano questi ultimi con  un loro determinato nome.

Secondo la ricerca, pubblicata nell’ultimo numero dei Proceedings of the Royal Society Sezione B, i delfini tursiopi sono gli unici animali conosciuti a farlo, ad esclusione degli esseri umani. La differenza è che nei delfini queste comunicazioni sono costituite da fischi, non da parole.

 

Ricerche precedenti avevano evidenziato come questi delfini indicano se stessi mediante un “fischio-firma” caratteristico che codifica altre informazioni. Qualcosa di simile al grido di un umano che dice: “Salve a tutti! Sono un sano maschio adulto di nome George e non voglio farvi alcun male!”

 

La nuova scoperta è quella che i delfini tursiopi esprimono anche il nome di altri determinati delfini. “Quando sono stati separati da un compagno intimo, questi animali emettono riproduzioni del suo segnale, e questo avvalora la nostra convinzione che i delfini copiano il ‘fischio-firma’ identificativo di un altro animale, qualora vogliano ricongiungersi con quello specifico esemplare,” ha affermato aDiscovery News Stephanie King, ricercatrice responsabile della sezione Ricerca sui Mammiferi Marini dell’università di St.Andrews.

 

Dal 1984 al 2009, la King e i suoi colleghi hanno raccolto dati acustici sui delfinitursiopi selvatici nei pressi di Sarasota Bay, Florida.  I ricercatori hanno anche esaminato in modo intensivo quattro delfini maschi adulti in cattività, ospitati presso il The Seas Aquarium, sempre in Florida.

 

I maschi in cattività sono adulti ai quali i sorveglianti hanno dato il nome di Calvin, Khyber, Malabar e Ranier. Tuttavia, come tutti gli esemplari selvatici, questi tursiopihanno elaborato i propri suoni identificativi che fungono da nome per interagire con gli altri delfini.

 

“Un delfino emette il proprio fischio identificativo per comunicare la sua identità e annunciare la sua presenza, consentendo così agli animali di identificarsi l’uno con l’altro a lunghe distanze, riconoscersi e riunirsi,” ha precisato la King. “I suoni emessi dai delfini possono essere rilevati fino a 20 chilometri di distanza, a seconda della profondità in acqua e della frequenza del fischio.”

 

Gli studiosi hanno detto che i delfini riproducono i suoni identificativi dei propri cari, come la madre o un compagno intimo, ogni volta che sono separati. Questi “nomi” non sono mai stati emessi in circostanze aggressive oppure ostili, e sono stati diretti solo ai propri cari.

 

Le riproduzioni dei fischi hanno avuto per essi un’unica variante, tale che i delfini non stavano semplicemente imitandosi l’un l’altro. Al contrario, i delfini hanno aggiunto il proprio “tono di voce” mediante un preciso fischio.

Sebbene i ricercatori siano cauti nell’applicare alla comunicazione non umana il termine “parola”, è evidente che i delfini tursiopi, e forse anche altre specie di delfini, hanno un sistema di comunicazione molto complesso e sofisticato.

 

“Stranamente, i delfini in cattività riescono ad apprendere nuovi segnali e riferirsi a oggetti, ed è possibile che siano in grado di impiegare copie dei fischi-firma per classificare o fare riferimento a un individuo, il che è un’abilità intrinseca del linguaggio umano,” ha dichiarato la King.

 

Heidi Harley, professoressa di psicologia al New College of Florida, è uno dei massimi esperti sui processi cognitivi dei delfini. E’ d’accordo con le conclusioni della ricerca.

La Harley ha detto a Discovery News che può essere impegnativo esaminare i fischi-firma dei delfini, perché è difficile stabilire quale determinato delfino sta emettendo i suoni, e se questi non sono altro che repliche.

 

“La ricerca dimostra che le copie dei fischi-firma contengono elementi che si distinguono dai suoni emessi dal primo delfino, pur conservando nel tempo le variazioni di frequenza che consentono all’ascoltatore di identificare l’animale che li ha emessi,” ha affermato la Harley. “Inoltre, si dimostra che la riproduzione del fischio-firma avviene tra compagni stretti, indicando così il suo impiego nella socializzazione.”

 

La King e il suo gruppo stanno ora utilizzando esperimenti con riproduzioni audio, per scoprire in che modo i delfini liberi allo stato selvatico reagiscono all’ascolto di riproduzioni del proprio caratteristico fischio-firma.

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