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14 novembre 2014 5 14 /11 /novembre /2014 12:38

Sei studenti in un college americano, tre in una stanza buia e tre davanti allo schermo di un computer. Insieme, devono difendere una città. Tre di loro, con elettrodi sul cranio, sono attaccati a una macchina che ne legge l'attività cerebrale e la trasmette agli altri via internet: quando pensano di muovere la mano, sono questi ultimi a muovere la loro. Potrebbe sembrare l'inizio di un film, e invece è accaduto davvero, a Seattle, negli Stati Uniti. È, potremmo dire, l'apparato sperimentale alla base di una ricerca appena pubblicata su Plos One, condotta da alcuni informatici, bioingegneri e psicologi della University of Washington di Seattle con l'obiettivo di studiare la possibilità di connettere via internet i cervelli di due persone in tempo reale.

In realtà, che fosse possibile una comunicazione tra persone a distanza tramite la trasmissione di segnali cerebrali via internet era stato dimostrato già un anno fa: questo studio fa parte di un progetto i cui primi risultati erano stati resi pubblici ad agosto 2013. Se allora, però, l'esperimento era stato condotto su 

una sola coppia di soggetti - due dei ricercatori coinvolti, l'ingegnere Rajesh Rao e lo psicologo italiano Andrea Stocco - questo nuovo lavoro è più solido sia dal punto di vista tecnico che rispetto al numero di soggetti coinvolti, e costituisce un salto di qualità rispetto alla possibilità di realizzare veri e propri dispositivi di questo tipo.

“Quell'esperimento era una prova, volevamo dare una dimostrazione che fosse possibile”, dice Stocco, tra i ricercatori del progetto, oltre che prima “cavia” in assoluto dell'esperimento. “C'erano ancora molte questioni da risolvere, non eravamo certi che l'esperimento fosse riproducibile”, continua Stocco. “Da allora abbiamo reingegnerizzato tutto, riscritto il software, e l'attrezzatura utilizzata è più stabile: ora chiunque potrebbe usarla anche senza conoscerne i dettagli tecnici”, specifica lo psicologo.

Divisione dei compiti, tra cervelli

Il nuovo studio, che si è svolto nel campus della University of Washington di Seattle, ha coinvolto sei soggetti: tre “mittenti” e tre “destinatari”, di segnali cerebrali. Per ogni coppia, i ricercatori hanno fatto accomodare il mittente davanti a un videogioco il cui obiettivo era difendere una città sparando palle di cannone per intercettare i razzi lanciati da una nave pirata. Il giocatore, però, non poteva interagire fisicamente con il gioco, per esempio digitando i comandi su una tastiera: doveva solo pensarlo. Perché a muovere la mano al posto suo su uno schermo touch sullo stimolo di quel suo segnale cerebrale, quasi senza accorgersene, doveva essere un'altra persona, dall'altra parte del campus, seduta in una stanza buia e isolata acusticamente da cuffie per minimizzare gli stimoli esterni.

“Abbiamo scelto di ricorrere a un videogioco sulla base di quello che volevamo dimostrare”, spiega Stocco. “Era importante evidenziare la possibilità di una connessione cerebrale in tempo reale, non in differita, e volevamo anche sottolineare l'aspetto collaborativo: che pensare un movimento ed eseguirlo diventassero compiti distribuiti tra due cervelli”.

A questo scopo, i ricercatori hanno usato due tecniche non invasive: l'elettroencefalografia (EEG), per registrare gli impulsi elettrici prodotti dall'attività cerebrale del mittente, e la stimolazione magnetica transcranica (TMS) per trasmetterli al destinatario via internet, interfacciate attraverso un software progettato ad hoc. Mentre il primo indossava una cuffia con elettrodi, sul cranio del secondo partecipante allo studio era stata sistemata una una bobina di metallo in corrispondenza della sua corteccia motoria sinistra, l'area del cervello che controlla i movimenti della mano. La bobina, trasmettendo brevi impulsi magnetici, era in grado di indurre una corrente elettrica nel tessuto cerebrale e attivarne i neuroni.

Interprete per cervelli

Il segnale cerebrale che induce il movimento della mano, in realtà, è molto simile a quello che regola il movimento di tutti gli altri muscoli, non è un segnale specifico. “Se avessimo spostato la bobina in corrispondenza di altre aree di quella striscia di cervello chiamata corteccia motoria, avremmo anche potuto indurre altri movimenti”, spiega Stocco. Nel corso di questo esperimento si è scelto di far attivare il muscolo estensore radiale, quello che muove il polso verso l'alto. Ma regolando con più accuratezza alcuni parametri dell'esperimento, continua il ricercatore, sarebbe stato possibile ottenere anche un movimento più preciso, come quello di un dito, per esempio.

Per quanto il segnale cerebrale motorio sia “semplice”, però, è diverso per ognuno di noi, specifica Stocco, sia rispetto ad alcuni parametri, come frequenza e intensità, sia rispetto al punto del cranio che corrisponde alla corteccia motoria legata al movimento della mano. Se per risolvere quest'ultimo problema è bastato fare alcune prove sui riceventi per individuare il punto della testa che, correttamente stimolato, producesse il movimento, per ovviare alla differenza nei nostri “linguaggi cerebrali”, i ricercatori hanno dovuto sviluppare un software che svolgesse il ruolo di traduttore.

“Il software che abbiamo usato, conoscendo i parametri del segnale cerebrale del mittente legati al desiderio di muovere la mano, li traduce nei parametri che usa invece il destinatario quando ha intenzione di compiere questo gesto”, spiega Stocco. “Possiamo pensarlo come un semplice software di traduzione tra due lingue, per esempio tra italiano e inglese. Il software controlla tutto quello che il mittente dice in italiano, e quando registra la parola 'mano' si ferma e produce come output la corrispondente parola in inglese, 'hand'”. Il segnale cerebrale legato a quel preciso movimento è un segmento di informazione che va isolato dal resto della nostra attività cerebrale, che ai fini dell'esperimento è rumore.

Io la mente, tu il braccio

L'esperimento è riuscito: a seconda della coppia, sono stati colpiti tra il 23 e l'83 per cento dei razzi. I fallimenti, secondo i ricercatori, sono dipesi dalla presenza di un segnale cerebrale rumoroso, difficile da decodificare per il computer, oppure da una mancanza di concentrazione del mittente nel pensare il comando di “fuoco”. Nell'articolo, infatti, è stata anche quantificata in bit l'informazione prodotta e quella recepita, così da poter misurare il “livello di connessione” dei due cervelli. Ed è emerso che la quantità di informazione dipendeva dal soggetto: c'erano alcuni mittenti che producevano più segnale, altri meno; o alcuni riceventi più “sensibili”, a cui bastava meno segnale per muovere il muscolo. “Considerando un bit equivalente alla minima quantità di informazione necessaria per decidere se premere o no il pulsante, possiamo dire che le nostre coppie si sono trasmesse un numero di bit compreso tra 4 e 16”, specifica Stocco.

Insieme ai 32 passaggi di razzi sullo schermo considerati nell'esperimento, sono stati effettuati anche 32 test di controllo, durante i quali, al passaggio di un razzo, veniva spenta l'interfaccia cervello-cervello e la corrente veniva fatta passare nel verso opposto, per essere certi che, in quel caso, la mano del ricevente non si muovesse, e che quindi il movimento non fosse dovuto a elementi diversi dal segnale cerebrale del mittente.

Oltre la barriera del linguaggio


Il prossimo obiettivo sarà riuscire a decodificare e trasmettere segnali cerebrali più complessi, per esempio informazioni sensoriali invece che motorie, per poi arrivare a qualcosa di più concettuale.

“Sicuramente lavoreremo sulla trasmissione di segnali visivi, come linee e semplici forme geometriche”, dice Stocco. Aggiungiamo che proprio lo scorso settembre un altro gruppo di ricercatori, dello Starlab Barcelona, hanno presentato su Plos One i risultati di un esperimento tecnicamente simile a questo, in cui una persona in India aveva inviato le parole “hola” e “ciao”, in codice binario, a tre persone che si trovavano in Francia, che le avevano poi recepite sotto forma di fosfeni - flash di luce che compaiono nella visione periferica - in sequenze numeriche decodificabili. 

Stocco specifica che la possibilità di riuscire dipende soprattutto dall'accessibilità dell'area del cervello legata a quelle determinate funzioni. Per esempio, aggiunge, trasmettere segnali uditivi è difficile proprio perché la zona del cervello che controlla l'udito è meno raggiungibile. Difficile è anche lavorare sulle sensazioni tattili, che finora non si è mai riusciti a stimolare se non con metodi invasivi, durante gli esperimenti di stimolazione a cranio aperto con elettrodi applicati direttamente sul cervello, condotti negli anni Cinquanta.

Paradossalmente, Stocco e i suoi colleghi sono certi, invece, che si possa trasmettere un concetto, come per esempio l'idea di cane. “È complicato, ma non è un problema tecnologicamente insolubile”, dice il ricercatore. Le informazioni di natura semantica, ci spiega Stocco, sono legate a segnali cerebrali distribuiti su una grande superficie della corteccia, ma, usando la risonanza magnetica funzionale, si possono categorizzare con grande precisione; tanto che, nel 2012, un gruppo di ricercatori della University of California di Berkeley è riuscito a individuare i segnali cerebrali legati a oltre mille oggetti diversi.

“Quando pensiamo alle forbici”, continua Stocco, “l'idea che ne abbiamo è data dalla somma di tutti i diversi pensieri che vi associamo: il metallo, il movimento che facciamo per usarle, la sensazione sulle dita, pensiamo che sono pericolose, o a quando le abbiamo usate l'ultima volta”. Mettendo insieme attività motorie, sensoriali e concettuali.

I ricercatori della University of Washington, ci racconta Stocco, hanno già cominciato a fare esperimenti in questa direzione. Per adesso stanno indagando i segnali cerebrali legati a due diverse categorie di oggetti: abitazioni, come case o capanne, e strumenti, come per esempio, appunto, le forbici. La scelta di queste due categorie, ancora una volta, è dipesa dal fatto che sono associate ad aree del cervello molto lontane tra loro, e si prestano quindi, in prospettiva, a divenire oggetto di un esperimento di EEG, che è uno strumento molto più rapido della risonanza magnetica, sebbene meno preciso.

A quel punto il gioco si farà più complicato perché, ci anticipa Stocco, “se il destinatario dell'idea di 'forbici' risponderà 'panino', non vorrà dire che l'esperimento non sia riuscito, perché quell'idea potrebbe anche essere stata recepita a livello solo inconscio”. In quel caso la sua traccia dovrebbe comunque essere rimasta nel cervello, e Stocco ha già in mente diversi esperimenti per testarlo: “Se chiederemo al destinatario una parola che inizia con la f, probabilmente, non sapendo perché, risponderà 'forbici'; o indicherà le forbici se gli faremo scegliere tra una serie di oggetti”.

Forse un giorno potremmo riuscire a comunicare concetti senza parlare la stessa lingua? Staremo a vedere.

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